green washing definizione

I 7 peccati capitali del greenwashing

Il mondo è in pericolo e l’emergenza climatica ce lo ricorda. Così ci sono aziende che, per aumentare il proprio appeal e per ottenere nuove opportunità di finanziamento, millantano un’attenzione nei confronti dell’ecologia che, in effetti, non hanno. Nonostante il greenwashing continui a persuadere i consumatori poco informati sul tema, si tratta di un’arma a doppio taglio. Leggendo questo articolo scoprirai di cosa si tratti e come promuovere la sostenibilità del tuo brand o personal brand in maniera etica e trasparente. 

Che cosa si intende per greenwashing?

Il termine “greenwashing” mette insieme i termini “green” (verde) e “washing” (pulire) e si riferisce alla tecnica di comunicazione e marketing che cerca di far breccia su quella fetta crescente di consumatori che cerca aziende e prodotti sostenibili. Ovviamente, non attraverso azioni autentiche e trasparenti, ma attraverso una brand strategy atta a costruire un’immagine ingannevole.

È il caso, per esempio, dei fornitori di energia elettrica che, pur promuovendo le fonti di energia rinnovabile, continuano a utilizzare energia proveniente da fonti non rinnovabili come il carbonio.
Ed è il caso pure di H&M che, nonostante la sua “Conscious Collection”, continua ad adottare pratiche di fast fashion che mal si sposano con il rispetto dell’ambiente.

Chi vigila in Italia sul greenwashing?

A vigilare sul greenwashing, in Italia, è l’Antitrust, sulla base di direttive che accomunano l’intera Ue, perché manca ancora una posizione legislativa definita. A tal proposito, il 6 marzo del 2024 è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea un nuovo decreto contro il greenwashing, che definisce quali pratiche commerciali gli stati membri devono considerare come ingannevoli:

  • la pubblicità di caratteristiche di sostenibilità di prodotti e/o servizi come vantaggi per il consumatore, quando queste non sono direttamente collegate all’impresa o alla produzione (es. acqua “senza glutine”);
  • l’uso di confronti tra prodotti propri o dei concorrenti per promuovere caratteristiche ambientali, sociali e di durabilità senza un confronto chiaro e oggettivo (es. “40% in meno della plastica usata”);
  • l’utilizzo di marchi di sostenibilità senza certificazione da parte di un’autorità pubblica o comunque di terzi;
  • i claim generici che comunicano l’ecosostenibilità (es. “rispettiamo l’ambiente”);
  • la menzione dei requisiti imposti per legge come vantaggi e non come obblighi normativi;
  • la mancata comunicazione che gli aggiornamenti software possano incidere negativamente sulle performance dei prodotti digitali;
  • comunicazioni di vantaggi presunti che limitano la durabilità dei prodotti;
  • la pubblicità di durabilità di beni nel tempo che non si basano su condizioni d’uso comuni in termini di tempo e di modalità di utilizzo;
  • la formulazione di asserzioni sull’impatto ambientale di un prodotto/servizio, quando quest’ultima dipende dalle strategie di compensazione di emissioni di gas serra.

Nel nostro Paese, diverse associazioni inviano segnalazioni all’autorità competente, oltre che sensibilizzare l’opinione pubblica sul fenomeno. Alcuni esempi sono Greenpeace e TerraChoice.

Come smascherare il greenwashing

Per contrastare il greenwashing, TerraChoice – società di consulenza ambientale e di marketing con sede in Canada – ha individuato i “7 peccati capitali” che possono aiutarci a identificare tutte le pubblicità ingannevoli:

  1. peccato di omessa informazione (hidden trade-off). Accade quando il brand in questione omette informazioni fondamentali per valutare l’impatto ambientale di prodotti e servizi;
  2. peccato di mancanza di prove (no proof), proprio di chi descrive caratteristiche di sostenibilità senza fornirne la prova o la certificazione;
  3. peccato di vaghezza (“vagueness”), di tutte le imprese che forniscono claim così vaghi da non essere verificabili;
  4. peccato di adorazione di false etichette (worshiping of false labels), quando i brand inventano certificazioni o utilizzano certificazioni esistenti mai conseguite,;
  5. peccato di irrilevanza (irrelevance). Accade quando vengono forniti dettagli irrilevanti per valutare l’effettiva sostenibilità del prodotto/servizio;
  6. peccato del minore dei mali (lesser of two evils), dei brand che fanno credere che il prodotto o servizio proposto sia “meno peggio” di un altro, senza affermare che sia comunque dannoso per l’ambiente;
  7. peccato di mentire (fibbing), proprio di chi dichiara il falso.

I danni del greenwashing su brand e ambiente

Il greenwashing dev’essere combattuto con tutte le nostre forze perché comporta il dirottamento di risorse – anche pubbliche – da iniziative autentiche a imprese poco responsabili. Ciò, di fatto, ostacola il progresso in settori nevralgici come le energie rinnovabili e l’economia circolare. 

Inoltre, questa pratica scorretta mina la fiducia della popolazione nei confronti delle soluzioni ecosostenibili, creando un clima di scetticismo che si traduce nella ripetizione di tutte quelle scelte che ci hanno portati all’attuale emergenza ambientale, persino da parte delle imprese stesse, che potrebbero sentirsi scoraggiate dal mettere in atto politiche a favore della vera sostenibilità.

L’ecologia di facciata fa sì, inoltre, che gli interventi normativi tardino ad arrivare, impegnando le istituzioni a concentrarsi sul contrasto delle pratiche scorrette.

Al netto delle considerazioni etiche e morali, il greenwashing non favorisce neppure i brand che lo utilizzano. Pensiamo, per esempio, al “pandoro gate” di Chiara Ferragni. Senza entrare nel merito delle reali volontà dell’influencer al momento della sua campagna di marketing, possiamo affermare che millantare false azioni benefiche nei confronti dell’ambiente o delle persone può far precipitare la brand awareness.

I segreti del green marketing autentico

Perché le persone comprano da brand sostenibili o presuntamente tali? Le motivazioni possono essere diverse: le norme sociali, l’influenza del gruppo dei pari, la credenza che siano di maggior valore, che il bene fatto agli altri torni indietro e che le proprie azioni possano fare la differenza, il bisogno di sollevarsi dal senso di colpa.

Puntare sulla sostenibilità è una buona scelta, a patto che sia autentica. Il green marketing, a differenza del greenwashing, non ha come obiettivo diretto il consenso e la conversione degli utenti in clienti, bensì la costruzione di una brand identity di valore che sia trasparente, che rifletta davvero l’etica del brand. Si tratta di un impegno profondo nei confronti dell’ambiente, della “casa” che il cliente stesso abita. 

Il “marketing verde” mira allo sviluppo – oltre che alla pubblicità – di prodotti e servizi sostenibili e si traduce spesso nel brand activism, ovvero nella promozione di cambiamenti positivi.

La progettazione, il luogo di disponibilità, il pricing e le attività di marketing dei prodotti green, per mostrare tutta la loro efficacia, devono essere credibili e presuppongono un certosino lavoro di informazione della target audicence. Il miglior modo per raggiungere questo risultato è definire una strategia che allinei i valori dichiarati a quelli praticati e che si avvalga di storytelling e brand journalism per:

  • avere un effettivo ritorno d’immagine;
  • attrarre l’interesse degli investitori;
  • aumentare le vendite e il fatturato;
  • fidelizzare i clienti.

Lo hanno già fatto colossi come Unicredit e Mulino Bianco. Che aspetti per farlo anche tu? Compila il form, raccontami di te e sarai ricontattato/a per cominciare questa nuova avventura.